The Piano Tuner of Earthquakes, di Stephen e Timothy Quay. Dall’umano all’automa
Tutto ciò che viene illuminato da una luce artificiale, nell’oscurità, brilla come il fuoco di una candela, così è anche per le parole composte ed elegantemente scandite dalle voci, all’interno del silenzio privo d’ogni rumore di fondo. Sul contrasto sensoriale Stephen e Timothy Quay mettono in scena, mescolando live action e animazione, il loro secondo lungometraggio prodotto da Terry Gilliam: The Piano Tuner of Earthquakes.
Alla vigilia del suo matrimonio, la cantante lirica Malvina viene misteriosamente rapita da un misterioso Dr. Droz. Un accordatore di pianoforti, Felisberto, è chiamato nella villa isolata del Dr. Droz per riparare i suoi incomprensibili automi musicali. A poco a poco Felisberto comprende i piani del medico sia circa la messa in scena, sia per quanto riguarda il destino di Malvina, e tenta di opporsi cercando di salvare l’attrice, sino alla conclusione nella quale una delle profezie della cantante diventa realtà: Quanto più moto è l’amore, tanto più è duraturo. Ma è sul lavoro del Dr. Droz che Felisberto agisce, tutti gli automi che sarà costretto ad accordare altro non sono che ingranaggi, meccanismi che agiscono/reagiscono sempre nella stessa maniera all’impulso umano, tuttavia aspirando ad avere autonomia dall’umano stesso.
Il meccanismo, dall’essere prodotto diventa produttore (di suono, ma anche del suo stesso agire) così da diventare (teoricamente) inarrestabile, ed è a questo che Felisberto aspira: il ritorno dell’umano davanti alla meccanicità dell’automa, all’amore finito e finitesimale, che abbia la forza di opporsi all’unico amore duraturo: l’amore morto. Nello stesso modo lo sguardo di Malvina, velato, è uno sguardo incapace di opporsi alla luce che in tutto il film attraversa il buio con forza, non riuscendo mai ad illuminare, ma scalfendo le forme e le persone, lasciando allo spettatore la forza del contrasto, contrasto che, come detto, è una scelta estetica dei fratelli Quay che non si occupa solo del rapporto luce/ombra, ma anche di quello acustico tra rumore/suono (già di per sé un dualismo) e silenzio. I suoni puliti, limpidi scalfiscono il silenzio esattamente come la luce con l’ombra.
Gli opposti che durante tutto il film emergono vanno a creare quel rapporto tra tempo ciclico e tempo lineare che alla fine risulterà essere determinante negli automi, la luce artificiale, così come la parola o il suono, vanno a rompere il silenzio e il buio, nella forma di creazioni umane, nella forma di ciò che è caduco nei confronti di ciò che è duraturo. Il ruolo di accordatore è, in questo senso, principalmente in antitesi con la creazione del meccanismo; l’accordatura è ciò che modifica il meccanismo acustico per un fine, ottenere un determinato suono, una determinata intonazione. Atto profondamente umano che si oppone al rumore e al silenzio, il suono è la fuoriuscita del dionisiaco dall’apollineo. In questo senso l’organicità estetica prodotta da due fratelli Quay è totale, così da riuscire ad ottenere attraverso il live action e l’animazione, un risultato giocato sulla risoluzione della dualità attraverso l’atto creativo. L’automatismo può esser considerato come la creazione dell’uomo alla quale si vorrebbe conferire la volontà, con tutto ciò che il dono della volontà comporta, come ad esempio la possibilità di invertire il rapporto tra soggetto creante e oggetto creato; rimanere, in fin dei conti, intrappolati all’interno della creazione alla quale si stava lavorando, divenuta autonoma rispetto al suo creatore.
Così, il gesto umano è riuscito, attraverso l’arte, e la musica in particolare, a ribaltare il meccanismo, a ribellarsi nei confronti del mondo che l’ha creato, organizzando e gestendo in rumore in suono e il buio in luce, come un accordatore che è in grado di intonare il rumore, diventa pericoloso per chi crea meccanismi e automi.
Luca Romano