Masochismo Formativo Coreano – La realtà dietro gli schermi II
Quello coreano è un sistema di istruzione paramilitare e fondato sulla competizione spietata, dicevamo. Una scuola che prepara a carriere durissime e guerre econoale non sono poche le donne trentenni che nascondono alle loro famiglie i fidanzati, le sigarette e gli alcolici. E ovviamente le botte. In Corea la classe dirigente adesso ha una età media tra i sessanta e gli ottanta anni. E’ la stessa generazione che, a partire dalla fine della guerra, nel 1953, ha permesso ad un paese del terzo mondo di diventare protagonista di una delle più rapide e incredibili crescite e processi di sviluppo della storia dell’umanità. Come? Rinunciando in massa a cosette come la felicità individuale, la cura della famiglia, i weekend e persino l’istruzione. Semplicemente, gli uomini lavoravano giorno e notte. E le donne procreavano e badavano alla casa. Questi sono, insomma, i vecchi saggi che consigliano i giovani e ne sarebbero i modelli di vita. Una vita che esige, a grandi linee, i soldi necessari a comprarsi l’automobile, la casa e a sposarsi entro il limite dei trent’anni. Con l’aggravante dei due anni persi a fare il servizio militare, per colpa dei quali slittano gli studi e si interrompono i rapporti con le compagne di scuola coetanee. Scuola violenta, capitalismo aggressivo, modelli estremi, rapporti umani difficili e, di conseguenza, anch’essi violenti.
E’ quindi ironica l’accusa di sessismo rivolta ciclicamente a Kim Ki Duk, la cui colpa sarebbe quella di rappresentare poche donne nei suoi film, e di farlo limitandosi a tratteggiarle come vittime di violenze e soprusi. Ironica ma perfettamente comprensibile: Kim si permette di mettere in scena la guerra tra i sessi, e il malessere del suo paese, con occhi radicali e una prospettiva assolutamente inedita, che disturba e arriva alle viscere. Si tratta, inoltre, di un cineasta che non ha studiato cinema, ha lavorato come operaio e soldato, e dalle scuole che ha frequentato è stato perlopiù espulso. Non c’è da stupirsi, quindi, se nel suo paese Kim Ki Duk è detestato, osteggiato, accusato e ignorato. Le contraddizioni della Corea sono linfa vitale per il suo cinema: violenza estrema e poesia visiva convivono negli stessi fotogrammi; gli spettatori sono costretti a serrare le palpebre per l’orrore, e subito dopo a spalancarle per restare in contemplazione di immagini bellissime.
Completamente diverso è invece l’approccio alla violenza di Park Chan Wook, così come la sua estetica, influenzata dal cinema occidentale, in primis quello di Hitchcock (prima di passare dietro la macchina da presa, Park si guadagnava da vivere come critico cinematografico). Il suo sguardo risulta quindi universale, come il concetto di vendetta. In Corea le storie di corruzione e ingiustizia attraggono masse enormi di spettatori (una media di dieci milioni, un quinto della popolazione), masse che covano risentimento verso i politici, la polizia e i ricchi uomini d’affari. Una leva potente ed efficace, anche se populista, chè tutti vogliono vendicarsi o sognano di farlo. Eppure non è la vendetta ad aver aperto a Park la strada verso il successo: con Joint Security Area, nel 2000, realizza un film di importanza storica inarrivabile – la censura al cinema aveva appena allargato le maglie, permettendo di trattare temi politici scottanti come il rapporto tra le due Coree – che è formalmente un thriller politico, certo, ma che contiene un semplicissimo, potentissimo ed inequivocabile messaggio di pace. Rivisto ora, dopo la trilogia, dopo Thirst, dopo Stoker, dopo I’m A Cyborg, But That’s Ok (tutti capolavori impressionanti, come spero sappiate) fa uno strano effetto: è certamente un film elegantissimo, coinvolgente e potente. Ma è un film “normale”, classicheggiante, nel quale Park sembra mascherato. La causa sta forse nell’urgenza politica che ne ha provocato la realizzazione nel momento giusto (al governo c’erano i democratici), e anche nella militanza di Park nel partito più progressista della Corea. Quello che ogni coreano sognava in segreto, e cioè l’unificazione delle due aree, o almeno una pacifica convivenza, con JSA viene finalmente espresso ad alta voce. Successo senza precedenti.
Un anno prima di JSA, la violenza di 50 anni di storia coreana arriva sullo schermo con Peppermint Candy, firmato da Lee Chang Dong, destinato in futuro a diventare ministro della cultura. La vita del protagonista è raccontata al contrario, inizia dalla sua fine e percorre all’indietro le tappe fondamentali della sua storia, attraverso le manifestazioni studentesche finite in massacri e gli orrori della dittatura militare, la crisi economica e le sue devastanti conseguenze sulle vite delle persone. Cinismo, maschilismo e perdita dell’innocenza di un uomo e di una nazione, che diventano, ancora una volta, grande cinema. Erano gli albori della cosiddetta New Wave del cinema coreano, e questi due film ne sono un po’ il manifesto programmatico. E sarebbero anche un ottimo inizio per un ideale percorso nel meglio del cinema made in Korea.