Masochismo Formativo Coreano – La realtà dietro gli schermi I
Googlando qua e là, cerco materiale interessante sulla Corea del Sud, che conosco discretamente dal punto di vista cinematografico, superficialmente dal punto di vista economico, solo vagamente dal punto di vista sociale. Mi imbatto quasi per caso nella materia universitaria culture e societa’ della Corea, nel corso di laurea Lingue, culture e società dell’Asia Orientale dell’università Ca’ Foscari di Venezia,e resto stupefatto leggendo che, tra gli obiettivi formativi prefissati: “(…)il corso si concentrerà in particolar modo su argomenti quali I valori confuciani, il patriarcato, la modernizzazione, identità moderne, forte tendenza all’istruzione, urbanizzazione, autoritarismo e anti-americanismo.” Un coacervo di opposte tensioni mi sembra subito, su cui spicca l’ossimoro tra valori confuciani e modernizzazione, così come il binomio autoritarismo e anti-americanismo. Spinte violentissime e contrastanti, con in mezzo quel “forte tendenza all’istruzione”, che più sotto, nell’elenco dei contenuti del corso, diventa addirittura “L’ossessione istruzione in Corea: problemi e questioni”. Voglio cominciare da qui, dal problema istruzione in Sud Corea, da come esso sia antitetico rispetto al problema istruzione in Italia. Antitetico, proprio così, perché dagli anni 80, da quando la Sud Corea non era tigre dell’Est Asia ma gattino anche un po’ malaticcio, l’istruzione – e con essa innovazione ricerca e sviluppo – fu individuata come leva fondamentale per lo sviluppo economico del Paese, donde una spesa pubblica nel settore superiore alla mediam OCSE, donde la scuola vissuta dalle famiglie come unico ascensore sociale in contrapposizione alla rigidità del sistema professionale e alla dilagante corruzione delle istituzioni. La cultura, vero baluardo dell’identità nazionale: “In South Korea, teachers are known as nation builders. Here in America, it’s time we treated the people who educate our children with the same level of respect” (Barack Obama, Discorso sullo Stato dell’Unione,2011).
In due decenni, la Corea si è radicalmente trasformata, oggi è il Paese con la più alta percentuale di laureati sul totale della popolazione scolastica, con la più alta percentuale di laureati sotto I 30 anni, un Paese intrinsecamente scolarizzato, ma qui cominciano i guai. La spinta all’istruzione di massa è stata infatti inserita in un disegno egemonico reazionario, portato avanti dalla dittatura militare che governava il Paese negli anni 80 e che si è ritirata in (quasi) buon ordine nel 1992. Ne è derivato un sistema formativo paramilitare, estremamente rigido e strenuamente competitivo, volto ad operare una selezione ariana dei migliori talenti utili alla causa della nazione, coadiuvato in questa dalla tipologia peculiare del nucleo familiare coreano. “La famiglia coreana rientra nell’ideal-tipo della famille souche (famiglia ceppo) in cui un solo figlio, il più delle volte il primogenito, è scelto come erede unico (Todd 2011).
I genitori ripongono fiducia assoluta negli insegnanti e nella loro obbiettività nell’assegnare i voti; il ruolo dei genitori è controllare che i compiti siano regolarmente eseguiti – da ciò nasce il mito delle madri-tigre (Chua 2011), piuttosto che dall’implicazione diretta nell’insegnamento. Spetta ai genitori inculcare nei figli la convinzione che ciò che conta è il successo scolastico (mentre l’insuccesso è fonte di vergogna sia per l’individuo, sia per la famiglia), senza necessariamente preoccuparsi di trasmettere il piacere della conoscenza come valore assoluto e investire nello sviluppo cognitivo. Quando un figlio si macchia di qualche peccato disciplinare, non è raro che i genitori si scusino dell’inconveniente con gli insegnanti facendo loro avere riso o qualche altro prodotto alimentare. Dove magari non arrivano i genitori può arrivare la pressione dei pari: alle medie è normale che gli studenti più grandi controllino ogni mattina che le uniformi scolastiche siano in ordine e che il cartellino con il nome di ciascun allievo sia ben visibile.” (A.Goldstein, La scuola, chiave del miracolo coreano?, pag.10). Questa tensione spasmodica al risultato ha portato ad un vero e proprio “masochismo formativo coreano” (cit. Amanda Ripley), una corsa al successo anche a costo di salassi finanziari per pagare le lezioni private di recupero, erogate dagli hagwon (istituti privati specializzati nel sostegno doposcuola, più o meno legali).
“Nel 2010 il 74% degli studenti era impegnato, in un modo o nell’altro, in un dopo scuola, per ricevere una ‘formazione-ombra’, con una spesa media di 2600 dollari l’anno a testa. Ci sono più insegnanti privati che statali in Corea del Sud. Tra loro ce ne sono alcuni che si arricchiscono con lezioni integrative online e private.(…) A Seul, legioni di studenti passano tutto l’anno dopo la maturità nelle hagwon per assicurarsi voti alti al test di ammissione nelle migliori università. Ma anche qui la lotta è spietata; persino per accedere al prestigioso Daesung Institute l’ammissione dipende dai voti dell’aspirante studente. Viene accettato solo il 14% di chi fa domanda, e di questi solo il 70%, dopo un anno a 14 ore di studio al giorno, approda a uno dei tre atenei migliori del Paese.” (Hey, Teacher, Leave Them Kids Alone – Masochismo formativo in Corea del Sud, di Amanda Ripley e Stephen Kim). Esistono anche altri atenei, certo, di provincia, certo, ma non per gli aspiranti Lupi delle multinazionali sudcoreane. La scuola richiede pertanto un forte investimento da parte delle famiglie, ma queste, nel contempo, devono pensare alla propria salute, visto che in Corea non esiste sistema sanitario nazionale, non esiste nemmeno la pensione, con la conseguenza che spesso le madri-tigre di cui sopra sono costrette a scelte drastiche, pagare il successo (o la semplice continuazione) negli studi per i propri figli, o spendere patrimoni per assistere gli anziani cari gravemente malati. Ho detto anziani non a caso, perché in Corea del Sud, come in tutti i Paesi ad economia disperatamente capitalista, il tasso di natalità rasenta lo zero, a fronte di un progressivo, inarrestabile invecchiamento della popolazione.
Non bastasse tutto ciò, la disparità di genere nel mercato del lavoro è la più alta della media dei paesi OCSE: “Le donne che lavorano sono il 23% in meno degli uomini, con la partecipazione più bassa fra i paesi OCSE; la situazione è pressoché uguale a vent’anni fa. Fra i manager solo il 9% sono donne, rispetto alla media OCSE del 29%. Da un lato le donne, secondo il ruolo assegnato loro dalla tradizione confuciana, sono proiettate alla cura della famiglia, dall’altro le lunghe ore lavorative (uno degli ingredienti del successo economico sudcoreano) non consentono di conciliare vita privata e lavoro.” (Corea del sud: l’economia corre, gli investimenti sociali languono, da http://www.rosellaideo.com/2014/01/corea-del-sud-leconomia-corre-gli.html)
E’ giunto il momento di ricapitolare: la scuola è per tutti, ma non tutte le scuole sono uguali, chi studia nelle grandi città è ovviamente più avvantaggiato. Anche chi è primogenito è avvantaggiato, meglio ancora se maschio, perché il sistema scolastico è militaresco indi cameratesco, invece le donne devono sostenere il peso della famiglia. I più si laureano ma non tutte le lauree sono uguali, così come non sono uguali le opportunità di lavoro postlaurea, con le donne a subire le solite planetarie discriminazioni. Inoltre, malgrado l’intervento dello Stato, vince a scuola chi ha più armi, cioè più denaro, per competere, agli altri restano le briciole. O i coltelli. O i martelli. O le pistole. O il cinema. (continua)