I GENERI DEL CINEMA COREANO – Parte I: Il Melodramma
Facile riempirsi la bocca e gli occhi di cinema coreano, meno facile analizzare i generi del cinema coreano, sempre mutevoli e flessibili come semplici giunchi nel vento. E’ che la Corea manca di generi suoi propri autoctoni, avendo subito massimamente l’influenza culturale dei colonizzatori che la hanno posseduta. Sotto la dominazione giapponese, per esempio, era a Tokyo che si decideva quali e quanti film programmare nelle sale di Seul: la censura nipponica era un sistema capillare e meticoloso, tanto che i primi cineasti coreani vi si confermavano dalle primissime fasi dei progetti, già al livello della genesi di un’idea. Per azzardare un parallelismo, i Coreani dell’epoca sembravano i registi italiani di oggi, così pervicaci e zelanti nel castrarsi davanti alla politica ed alla religione. Da principio quindi I film coreani furono una pedissequa imitazione di quelli giapponesi, e questa pronitudine continuò sotto la dominazione statunitense, quando, per di più, generi come il gangster movie o il western vennero sciovinisticamente considerati veicoli di propaganda dell’ideologia capitalistica trionfante, perciò aborriti, nascostamente adorati.
Il primo genere ad incontrare consensi e larga diffusione fu il melodramma, per un insieme di fattori concomitanti. In primo luogo occorre considerare che il pubblico della sale cinematografiche era composto in massima parte da donne. Abbiamo detto infatti in altra sede che la società coreana era – ed in qualche misura ancora è – marzialmente patriarcale, quindi l’uomo lavorava governava e praticava sport, la donna rassettava subiva e provava emozioni a buon mercato, al prezzo cioè di un biglietto per il cinema. Melodramma, genere di genere femminile, roba da donnicciole insomma. In secondo luogo il melodramma cinematografico, visto il suo target specifico, traeva spunto dal romanzo di appendice e dal feuilleton, massimamente melodrammatico, letto in grande quantità dalle donne che attraverso le pagine stampate immaginavano fiabeschi ascensori sociali e redenzioni di pizzi e merletti. In terzo luogo, la struttura visiva e narrativa del melodramma, con enfasi su visi e dialoghi da soap ante litteram, permetteva di produrre in copiosa quantità con mezzi low cost. Alle sue origini, il melodramma coreano era una pallida quanto fedele riproduzione del melodramma giapponese, lo shinpa, per estensione chiamato anche namida (lacrima), ma trovò un terreno talmente fertile da diventare un canone espressivo nazionale, ed anche quando arrivarono gli yankees, ed il cinema giapponese fu bandito, i Coreani continuarono a fare film in shinpa style, a sentirsi figli di un Sol Levante minore, fino a poco tempo fa, al 1998, anno in cui cadde definitivamente l’embargo sull’importazione di titoli giapponesi ed il confronto con l’originale determinò mutamenti espressivi radicali. Come genere nazionale, il melodramma trovò la sua massima fioritura negli anni 60 e fu magnificamente interpretato dai grandi registi dell’epoca, da Ki-young Kim, indimenticato autore dell’originale The Housemaid, da Yu Hyun-mok (Wife’s Confession) e da Lee Man-hee (Homebound). Quest’ultimo in particolare, artista sperimentale volto a contaminare il parossismo delle passioni con le potenzialità offerte dal mezzo cinematografico, aprì la strada a quel melting pot tra melodramma, horror, commedia e film d’azione che costituisce la cifra stilistica dei grandi Maestri coreani dell’oggi.
Ancora un cenno ai canoni strutturali del melodramma coreano. La protagonista femminile interpretava un ruolo alla Ofelia o alla Cenerentola, ma il più delle volte non c’era happy ending, erano storie con finali tristi, più che tristi, disperatissimi. Il sacrificio catartico della donna, allegoricamente, era funzionale alla preservazione dell’ordine costituito già nel neofeudalesimo imposto dal Giappone, ma continuò ad essere preteso dalla stessa opinione pubblica coreana anche sotto la dominazione americana, in difesa della tradizione si diceva, in realtà in difesa dell’immarcescibile patriarcato, con la sua sessuofobia, la discriminazione di genere e la rigidità del vincolo familiare e delle classi sociali. Ancora oggi, mancano in Corea storie di riscatto al femminile con abbandono del tetto coniugale che non si concludano tragicamente, punitivamente, tanto che Chung Sung III, grande critico cinematografico coreano dalla cui opera (Four Variations on Korean Genre Film: Tears, Screams, Violence and Laughter) abbiamo ossequiosamente tratto queste nostre considerazioni, afferma: “in termini ideologici, My Sassy girl (2001), che narra di una ragazza nell’era di Internet, non è differente da Madame Freedom, girato nel 1953 dopo la fine della Guerra di Corea”.