Courmayeur si tinge di noir: cronache da un piccolo, grande festival – parte I
Come ogni anno, Courmayeur, dall’8 al 13 dicembre, è stata teatro di uno dei festival cinematografici più belli, nonché più importanti, d’Italia: il Courmayeur Noir in Festival. Sì, è vero, questa splendida località valdostana è più nota per i suoi impianti sciistici nonché per la sua neve e per le maestose montagne che le fanno da cornice. E noi, invece, che abbiamo fatto? Siamo andati a Courmayeur non per godere dell’aria fresca ma per chiuderci in una sala cinematografica e passare ore e ore con gli occhi incollati a un mega schermo.
È il secondo anno che ci vado e, come l’anno scorso, appena finisce mi ritrovo a pensare quello che penso ogni volta che il festival del cinema di Venezia passa l’ultimo film dell’edizione di turno: “non vedo l’ora che arrivi la prossima edizione”. E giù di conto alla rovescia. A Venezia, ormai, sono cinque anni che ci vado. Però, vi dirò la verità, la sensazione non cambia anche al festival del noir di Courmayeur: siamo alla giornata conclusiva dell’edizione 2015 e già non vedo l’ora che sia dicembre 2016 per poter godere di tutti i prossimi film. E ospiti. E che ospiti! Ma ci stiamo arrivando.
Innanzitutto, tocca dire che questo festival, a mio parere, sta arrivando a surclassare la mostra di cinema dei nostri connazionali bevitori di spritz. Vero è che le dimensioni sono nettamente inferiori rispetto a quelle del festival tenuto a Lido ogni anno. Tuttavia questo non gioca a sfavore della qualità delle pellicole e degli ospiti di Courmayeur. Anzi, se possibile riesce solo a essere la vera forza di questo evento per cinefili e addetti ai lavori. Curiosi, eh? E allora passo a raccontarvi cosa ho visto in queste due giornate.
Brutti, sporchi e… umani
Il primo film che ho visto è stato il belga D’Ardennen (The Ardennes), del regista Robin Pront (a me, onestamente, del tutto ignoto) presentato anche al festival del cinema di Toronto di quest’anno. In perfetta linea con il tema del festival, questo film è un vero noir moderno. Niente gangster e strade fumose stile America anni Trenta, come potrebbe imporre l’immaginario legato a questo meraviglioso e complesso genere. Vi assicuro, però, che non è fatto un demerito della pellicola: cercate di recuperarlo in qualche modo, perché non ne rimarrete affatto delusi. La storia è molto semplice: Kenny viene arrestato e finisce in prigione per quattro anni, scontati i quali viene rimesso in libertà; nel frattempo, suo fratello Dave si è messo con l’ex fidanzata di Kenny, Sylvie, da cui aspetta anche un bambino. Il film ruota completamente attorno al senso di colpa di Dave per aver “rubato” la fidanzata a suo fratello e al suo tentativo di nascondere a Kenny la loro relazione. Serve dirvi che, ovviamente, Kenny viene a scoprire tutto prima o poi? No, ovvio che non serve. Anche perché non è neanche lontanamente questo il punto di forza del film né, tantomeno, il super colpo di scena finale. Niente spoiler, tranquilli. Cercate di recuperare questo film, ribadisco, e guardatelo.
Quello che è estremamente interessante in questa pellicola è la costruzione dei personaggi: Dave, Kenny e Sylvie sono molto ben delineati. Sono soggetti che vivono ai margini della società belga: sono tossici (Kenny e Sylvie) e alcolizzati (Dave) e, dulcis in fundo, parlano fiammingo. Non hanno un avvenire, si arrabattano come possono per sbarcare il lunario e sopravvivere. In questo senso, il film mi ha ricordato tanto il lavoro del londinese Tim Roth, in particolare Zona di guerra, film del 1999 che trasuda la disperazione e la crudeltà della vita quotidiana di alcuni personaggi ai margini della società. Il lungometraggio dell’attore e regista britannico è un vero pugno nello stomaco, non ti fa respirare fin dalla primissima scena; quello di Robin Pront, invece, è una mano che si arrampica piano lungo il petto e arriva a serrarsi alla gola molto lentamente, altrettanto impietosa. Come con i personaggi di Roth, inevitabilmente, non riusciamo a odiarli fino in fondo, né ad averne paura: non scelgono di drogarsi, ammazzarsi e rubare per partito preso, per arricchirsi o per contribuire a dei giri loschi. La droga, l’alcol e l’omicidio, per Kenny, Dave, Sylvie e tutti gli altri personaggi del loro mondo sono l’unica strada segnata per loro. L’unico sentiero in mezzo al bosco. Sono brutti e sporchi ma di certo non cattivi. Sono umani. E come tali, sbagliano.
L’unico che sembra tentare disperatamente di non soccombere a questa strada obbligata è Dave, che annaspa nel tentativo di scegliere tra il sentiero che porta a destra o quello che porta a sinistra. Kenny lo mette di fronte a una scelta obbligata, quando gli chiede aiuto per occultare un cadavere. Ed è proprio qui che assistiamo a una delle lotte intestine più drammatiche da cui ognuno di noi sia mai stato assalito fin dalla notte dei tempi: legge dello stato o legge della famiglia? Seguire il cuore o il cervello? Dave è un personaggio lacerato, continuamente sottoposto agli sbalzi di vari imperativi personali e morali. È un personaggio che evolve nel corso del film, passando da una condizione di ignavia a una di forza di carattere e di capacità di scelta. Proprio come quegli stessi struzzi che, a un certo punto, fuggono da uno zoo e finiscono nei boschi dov’è ambientata parte del film, Dave, inizialmente, tiene la testa sotto la sabbia per non affrontare lo scontro con suo fratello legato alla sua relazione con Sylvie. Proprio come quegli struzzi, alla fine, Dave si ritrova a dover attaccare per difendersi. E, sempre come quei pennuti, si trasforma in un animale molto pericoloso. Anche a livello tecnico questo film si rivela una vera e propria chicca: la regia e la fotografia aiutano lo sviluppo della storia e lasciano la parola ai personaggi, senza mai intromettersi o fare le primedonne a scapito dell’intreccio. Ottima colonna sonora, con un forte carattere diegetico, che raggiunge il culmine nella scena della colluttazione tra Dave e Joyce: la canzone francese à la Edith Piaf ricorda molto la scena di lotta del Comico in Watchmen (Zack Snyder, 2009), caratterizzata dal contrasto agrodolce tra ciò che avviene sullo schermo e la bellissima e romantica Unforgettable di Nat King Cole in sottofondo.
Uno scrittore molto extra e poco terrestre
A concludere la mia prima giornata di festival è stata l’anteprima mondiale della puntata pilota della nuova serie di X-Files: sempre molto figa, sempre tanti alieni e tanti complotti. Non che questo telefilm abbia bisogno di troppe presentazioni o elucubrazioni. Non è su questo che voglio soffermarmi quanto, piuttosto, su quello che, di fatto, è entrato a far parte della mia lista di cose da fare prima di morire: vedere dal vivo Joe R. Lansdale. Questa era la seconda volta che riuscivo a beccarlo in carne e ossa (la prima fu al mio primo anno di università, quando venne a tenere una conferenza per gli studenti, ma allora ero ancora troppo piccola per apprezzare il momento). La cosa più bella è stata vederlo sul palco per ricevere il premio Raymond Chandler come omaggio al suo lavoro: tralasciamo i suoi libri dedicati alla coppia di detective Hap e Leonard, non mi ha mai fatto impazzire, mi riporta troppo al filone super abusato degli ultimi anni incentrato su mitiche indagini condotte da individui al limite con l’assurdo. Le opere dove Lansdale si esprime al meglio, secondo me, sono le sue raccolte di racconti: In un tempo freddo e oscuro e Notizie dalle tenebre sono solo alcuni dei suoi pezzi forti. E al festival di Courmayeur, Joe non è stato da meno presentando il corto Bar Talk, scritto da lui: un potpourri piccante di elementi stile Stephen King, Augusten Burroughs e Richard Matheson in un gioiellino di soli otto minuti che, però, è un perfetto esempio della maestria di questo scrittore texano. Da non perdere.
L’esercito del surf 2.0
Protagonista del Courmayeur Noir in Festival, con mia estrema gioia, è stato anche un film dei nostri cugini iberici: Mi gran noche (la mia gran serata) di Alex de la Iglesia. Era da tempo che non vedevo un film spagnolo così valido. L’ultima pellicola che mi aveva incantato era stata El Clan di Pablo Trapero, in concorso all’edizione 2015 della mostra del cinema di Venezia. E comunque si trattava di un film argentino. Mi gran noche è stata una vera e propria ciliegina sulla gustosissima torta noir di questa manifestazione. Come tanti bellissimi film, il tema non è necessariamente originale: degli attori rimangono bloccati all’interno del set televisivo nel quale stanno girando un programma a causa di alcuni disordini che stanno avendo luogo all’esterno. Nessuno può entrare o uscire. Una versione comica e molto edulcorata del famosissimo Angelo sterminatore di Luis Buñuel, uscito nel 1962. E negli anni Sessanta si rimane anche all’interno del film di de la Iglesia: le atmosfere, il trucco e il parrucco sono quelle coloratissime ed euforiche degli anni del rock’n’roll e dei capelli cotonati, le vibrazioni le stesse del mitico Piper. Ed è proprio la stessa euforia degli anni di Brigitte Bardot e dei Beatles che viene comunicata alla perfezione anche in questo lungometraggio: l’atmosfera che il regista vuole all’interno del programma è felice a tutti i costi, quasi al limite con l’euforia, estremamente surreale.
Questa caratteristica, insieme ai dialoghi e al montaggio molto serrati e all’umorismo graffiante ci ricordano anche film come Donne sull’orlo di una crisi di nervi di Pablo Almodóvar. E con questo regista de la Iglesia condivide la tendenza a smascherare il trash e la muffa dell’odierna società spagnola, senza mai giudicare, quanto piuttosto prendendo in giro tutti i suoi personaggi. Come il meraviglioso Alphonso che, con i suoi atteggiamenti e le sue movenze, ci ricorda spudoratamente il Julio Iglesias dei tempi andati, dando vita a una perfetta caricatura che vive dei ricordi del passato ma che ha una forte, imponente vita propria. Dal punto di vista estetico, mi soffermerei sui colori di Mi gran noche che quasi saltano fuori dallo schermo, ricordando i toni vivaci del meraviglioso Grand Budapest Hotel di Wes Anderson. Consigliatissimo.
Ilaria Lopez