Andrey Zvyagintsev: Fotogenesi del subumano
«La mia è solo osservazione della vita, osservazione dell’ordine sociale, per un tempo abbastanza lungo, osservi la vita nel tuo paese, e l’ho voluta raccontare in modo diretto, dettagliato, onesto e obbiettivo.»
Sono queste le parole con cui Zvyagintsev presenta, in un’ intervista, Leviathan (2014). E` proprio quell’ordine sociale narcotico, che il regista si appresta a rimestare sin dal suo esordio registico con un’efferata lucidità.
Siamo nel 2003, e Zvyagintsev riceve il Leone d’oro al festival del cinema di Venezia per Il ritorno (film d’esordio).
L’opera mostra da subito ragazzi che intraprendono giochi e prove di coraggio immersi in un paesaggio rarefatto, dove la terra costeggiante il mare è frammezzata da casolari scarni e abbandonati, ostili alla vita. Questa è la Russia che Zvyagintsev ci mostra, un microcosmo che meglio non può presentare l’osceno a cui i nostri occhi assisteranno. Un padre fa improvvisamente ritorno dopo dodici anni, non si sa da dove (forse reduce di guerra?!), e intraprende un viaggio con i suoi due figli. Quello a cui i due giovani verranno sottoposti sarà inimmaginabile; un processo di formazione e di trapasso nell’età adulta di una violenza emotiva insostenibile e raggelante. Una consistente parte del film è girata su di un isola, ed è qui che il padre forgerà il carattere dei due giovani all’insegna dell’obbedienza cieca e del timore reverenziale “patriarcale”, ma soprattutto li sottoporrà ad ardue prove di sopravvivenza.
Vi è dunque un richiamo alle atmosfere dell’opera Il signore delle mosche (1963), ma l’estro di Zvyagintsev dimora nelle sue profonde radici culturali russe, infatti possiamo denotare che la nostra lettura dell’opera è veicolata da un ritmo frenetico e consequenziale che, se opportunamente sospeso, permette di rintracciare le dinamiche spietate di un tipico regime paramilitare. L’indole umana appare come intrisa sino al midollo da questo potere collerico e indomabile mentre la natura che traccia i confini e segue pedissequamente i personaggi sembra voler custodire e allo stesso tempo occultare questa scabrosa verità. Il fulcro della narrazione sembra convergere sulla figura ambigua del padre; da dove proviene? Perché agisce in questo modo? Ma soprattutto, è veramente il padre dei due ragazzi? Sono questi gli interrogativi che con arguzia Zvyagintsev inserisce nella pellicola rendendola ancor più destabilizzante. Tuttavia è possibile abbozzare un parallelo tra la figura del padre e quell’espediente filmico che definisco del “visitatore” rintracciabile in due pellicole di riferimento come Teorema di Pasolini (1968) e in Visitor Q di Takashi Miike (2001). In entrambe le pellicole irrompe un soggetto, venuto dal nulla, che cambia definitivamente le vite dei protagonisti, disgrega e riassembla (in un dualismo fondativo) l’unità familiare e libera definitivamente la vera natura dei personaggi. Nell’opera di Zvyagintsev la figura del visitatore, incarnata dal padre, è profondamente lacerata da una visione pessimista e cinica dell’essere umano.
Il processo di consacrazione registica e poetica di Zvyagintsev si compie con l’opera Elena del (2011), che segna la piena maturità in merito allo sguardo che volge nei confronti della vita, delle relazioni sociali e della madre patria Russia.
In questa pellicola rinveniamo sin da subito un elemento di distacco fondamentale rispetto ai suoi primissimi film; gli spostamenti di camera divengono più statici e le inquadrature prospettiche, prediligendo riprese di interni ( appartamenti, casolari e ospedali) alle distese naturali visionate in Il ritorno e in The banishment (2007) che aumentano il senso di solitudine e di disorientamento. In Elena gli interni, se pur ben curati e regolari, contribuiscono a trasmettere quel senso di trascuratezza e di disagio che riflette la personalità dei soggetti e delle loro esistenze, veicolando il vero concetto di “natura morta”. In quest’opera Zvyagintsev mette in scena un dramma che attinge a piene mani da Delitto e castigo di Dostoevskij (1866); centrale dunque è il tema del “denaro” che spingerà la protagonista a compiere una scelta che cambierà le sorti della propria famiglia. In questo scenario prende forma la concezione di “subumanità” che ci espone il regista: “ il seme marcio … Siamo tutti semi cattivi, subumani”. Sono queste le parole di Katerina, una delle protagoniste del film, che in confessione rivela al padre malato, mentre discorrono sul senso dell’unità familiare e del bene in sé. Il regista qui ci pone dinnanzi ad una tematica scabrosa di derivazione Schopenhaueriana, secondo cui al di là dello spessore delle apparenze e del perbenismo, l’uomo cela un seme marcio, corrotto, dettato dai più beceri impulsi vitali che spingono a perpetuare l’esistenza, così che le leggi e i comportamenti sociali divengono meri strumenti coercitivi illusori e fuorvianti. Cos’è dunque la subumanità per Zvyagintsev? Ebbene essa è ciò che, raschiando il fondo del concetto di “Uomo” rimane sciolta dalla definizione illusoria della “natura umana”. La subumanità, è ciò che sottraendosi alla terminologia comune, rivela un paradosso; quella che si definisce comunemente “umanità” è la più estrema delle violenze linguistiche perché proietta il soggetto in una realtà che gli è estranea.
Nel film rinveniamo scontri tra diversi tipi di moralità, ogni personaggio crede di perseguire un bene più grande di sé che il suo prossimo non può comprendere ma in realtà il regista ci mostra l’esatto opposto , cioè che ogni singolo gesto è il riflesso di un egoismo smodato e radicale.
La “natura” in quest’opera appare, come anche in Loveless (2017), sia all’origine che nel finale della visione, attraverso le medesime e statiche riprese; i rami spogli, rinsecchiti e tartassati dall’incessante cadere della neve, riflettono la gelida e violenta incomprensibilità delle relazioni umane (che si svolgono negli spazi interni) e contemporaneamente rappresentano la vera vitalità genuina assistendo passivamente, come spettatori, alla reale crudeltà.
Francesco Saverio Vernice.