Intervista a Mauro Carraro – prima parte
Circa un anno fa abbiamo avuto occasione di fare questa bella intervista all’animatore Mauro Carraro, che sarà nostro ospite giovedì 15 ottobre durante il quarto appuntamento della rassegna ENJOY! dedicata al cinema d’animazione d’autore. Il nostro primo incontro con il lavoro di Mauro è stato attraverso la visione del cortometraggio Matatoro, e già ci eravamo resi conto di essere di fronte a qualcosa di diverso. Hasta Santiago, vincitore tra l’altro del premio Jean-Luc Xiberras durante il Festival del Cinema d’Animazione d’Annecy 2014, ci ha affascinati come bambini che guardano un libro di fiabe illustrato. Carraro è un animatore raffinato, che utilizza la computer grafica per dare alle sue opere la pittoricità dell’acquerello o la luminosità delle vetrate dipinte di una cattedrale. In questa intervista abbiamo cercato di esaminare con lui gli elementi più importanti della sua tecnica e della sua arte, e cosa lo abbia portato a definire questo stile così particolare. Enjoy!
Saba Ercole: la prima domanda che vorrei farti riguarda proprio Hasta Santiago e la tecnica del “render non fotorealistico”: dal un punto di vista della pura visione la trovo bellissima, sembra davvero di guardare un disegno acquerellato, l’effetto è stupendo. Vorrei chiederti: ossessionato com’è il cinema da un 3D iperrealistico, è in un certo qual modo una scelta controcorrente questa?
Mauro Carraro: Io nel 3D vedo tre macro filoni estetici: fotorealismo, ormai esplorato in tutti i modi; non fotorealistico, come chiamo il mio render sensibile, e l’astratto. Per me sono le tre possibilità. Non mi considero pioniere del metodo: ad esempio, c’è un mio amico, si chiama Bastien Dubois che ha fatto uno dei primi carnet de voyage animati….la sua però è più tecnica mista mentre io sono un po’ più fedele, nel senso che adotto uno stile unico, senza cambiare stili grafici, cosa che mi ha permesso di affinare nel tempo questa tecnica, che ha richiesto negli anni svariate ricerche
SE: Cos’è che ti ha portato a scegliere questa tecnica? Ad esempio, sul tuo sito ho visto alcuni lavori precedenti e uno di questi è Petit Pas e lì invece utilizzi un 3D più classico
MA: Si. In quel caso si trattava di un corto di scuola, come Matatoro. Mi sono lasciato influenzare dai docenti, che mi hanno detto “eh, però, per un tema così…un po’ realistico, bisognerebbe utilizzare una tecnica più realistica”, perché funzionava con questa storia dell’astronauta. Invece, quando si tratta di storie un po’ più naïf tipo quelle che faccio adesso, uno stile più acquerellato mi permette di essere abbastanza fedele ai disegni preparatori a mano libera che faccio. Io cerco di trascrivere il più possibile i disegni che faccio a mano libera, quindi è per quello che utilizzo questa tecnica, perché posso anticipare molto come poi verrà resa l’immagine
SE: Guardando Matatoro e Hasta Santiago ho pensato questo, ovvero che una cosa che è piaciuta molto della tua tecnica è che non si perde il gusto di guardare il bel disegno e lo dico quasi con un’accezione rinascimentale del termine. A me questa tecnica è parsa molto bella perché, anche se si tratta di computer grafica, c’è sempre questa attenzione nei confronti del disegno, del gesto artistico
MC: Si, per me è una rivisitazione. Il 3D è un campo abbastanza nuovo e ancora inesplorato. Per molti è discriminatoria l’immagine di sintesi digitale ma per me no, e poi hai una libertà ampissima…io poi immagino ogni scena come se fosse un quadro animato. E quindi, per me, resta la preziosità dell’immagine che si anima. Si, cerco di renderlo più pittorico e che si possa vedere anche il difetto. È questo il grande problema del 3D, al contrario della pittura: il difetto non esiste, bisogna crearlo.
SE: La storia di Petit Pas mi è piaciuta molto, anche se il finale lascia un po’ male. Mi ha colpito questa commistione di piani e anche di linguaggi: il medium è sempre quello dell’animazione però l’animazione riproduce un dato reale (il signore che cena mentre guarda il video), però allo stesso tempo c’è la TV, un ulteriore medium, e il teatro con i burattini
MC: Che è anche simbolo del burattinaio, di essere manovrato
SE: Quindi, da un punto di vista linguistico, mi è sembrato molto complesso, come se ci fosse uno specchio che riflette un altro specchio che riflette un altro specchio ancora, all’infinito. Volevo chiederti se questa cosa era voluta
MC: Si, la sua forza è in quello e me lo sono potuto permettere perché il corto dura 1 min e questa breve durata permette di dare un messaggio molto preciso e di non perdersi in giri di parole: è la forza del formato da 1 min che ti permette di dare un messaggio molto diretto allo spettatore.
SE: Ma questa idea è venuta a te in primis o è stato un lavoro di gruppo legato alla scuola?
MC: Al 3 anno dovevamo tutti fare un corto da 1 min con il tema imposto. Noi avevamo come tema la marionetta. E quindi io mi son detto…a volte sono le cose più banali, l’uomo sulla luna, la marionetta, le cose più semplici che più rimangono impresse ed ho iniziato ad esplorare questo tema.
SE: Questo lavoro quanto tempo ti ha portato via?
MC: 8 mesi circa
SE: Quasi sicuramente è una forzatura, però questa immagine che si tuffa in un’altra immagine poi ritorna in Muzorama. In quel caso è stata una trovata di voi animatori oppure è stato l’illustratore, Muzo?
MC: Muzorama doveva essere l’episodio pilota per una serie di cortometraggi, 12, che poi sono stati realizzati: il risultato è stato un cofanetto e associava un autore, un illustratore francese a una equipe di studenti della mia scuola.
SE: Quindi praticamente un gruppo di studenti vengono affiancati da un illustratore o animatore e devono lavorare ad un progetto basato sulle sue opere?
MC: In realtà noi abbiamo visto Muzo il primo giorno che ci ha presentato i disegni e l’ultimo quando ha visto il film finito.
SE: Quindi lui non è stato con voi a guidare tutto il lavoro
MC: No, esatto. Noi abbiamo avuto una libertà quasi totale e il film è stato fatto in 6 settimane, quindi una cortissima durata per un film di 3 min. E’ stato come togliere un cerotto: hai pochissimo tempo, lo fai senza pensarci e diventa un po’ surreale perché è stato fatto in maniera quasi intuitiva. Lui ci ha presentato i disegni, noi avevamo un’idea di storyboard ma poi in realtà abbiamo pensato che un’idea più interessante sarebbe stata che ci fosse una galleria di personaggi. Per questo Muzorama: è la visione di Muzo. Quindi abbiamo ricreato una città con tutte le dinamiche di questi personaggi che potevano vivere in questa città.
SE: Dato che hai citato prima la parola surrealismo, mi ricollego a questo termine che spesso è stato associato alle tue opere. Ad esempio, indubbiamente Muzorama è surrealista, però io l’ho trovato associato anche a Matatoro e ad Hasta Santiago. Secondo me una componente fondamentale del surrealismo è la crudeltà e un divertimento misto ad una componente lievemente macabra, come in Muzorama. Però questa componente non la trovo negli ultimi tuoi film
MC: Secondo me surrealistico è da interpretare come associazione di elementi che non siamo abituati a vedere assieme. Per esempio, in Matatoro è questa costante trasformazione dell’arena che diventa giostra, circo, tempio….è da considerare in questo senso il termine surreale. Invece, in Hasta Santiago è piuttosto il fatto che camminando entri in una sorta di trans e vedi il villaggio con i ratti giganti, l’eoliche. A me avevano associato per Matatoro il termine felliniano, forse è un tocco più italiano, più latino sui film. Però è vero che c’è sempre questo sogno, sembra di essere sempre in qualcosa di non tangibile. Per esempio, Matatoro è molto pensato a livello di simbologia, magari bisogna conoscere la corrida perché ogni cosa nel film segue una simbologia ben precisa. In realtà Matatoro è nato a seguito di un’intervista che ho fatto a un matador, ad Arles. Questo era un matador che non ha avuto molta fortuna e quindi gestisce un bar, in centro. Sono andato a chiedere le sue sensazioni, ho fatto delle domande, molto mirate per estrapolare dai suoi discorsi delle informazioni che mi sarebbero potute essere utili per fare un cartone sulla corrida. E lui, un po’ naif, faceva delle associazioni di immagini, usava dei termini molto immaginari…parlava di questo toro complesso perché in realtà è un termine che usano veramente in corrida per dire che un toro è un po’ violento…però io mi sono immediatamente immaginato un toro con tante zampe, con tante corna….quindi, in realtà, lui mi ha dato degli input visivi e io gli ho trasferiti in immagini.
SE: Invece cosa ti ha ispirato l’immagine della fusione tra il toro e il matador? E’ un’immagine molto forte, sembra quasi un ex voto, o meglio, a metà tra un ex voto e un certo tipo di pittura spagnola….infatti, fermo restando la dimensione onirica, che è un tuo tratto distintivo, però Matatoro non è felliniano: Matatoro è sangue, è folla , è cultura spagnola. La dimensione del sogno sì, ma c’è una forte materialità di fondo
MC: Il fervore. Anche per quello mi ha molto interessato della corrida perché viviamo in una società molto semplice, “cordiale”, quindi ritrovare una cosa così fervente per me è stata una scoperta. Siamo nel 21° secolo e ci sono ancora queste cose a due passi da noi: sembra di essere in un buco spazio/temporale. Quando sei in una corrida, sei altrove.
SE: Quindi, quell’immagine di cui parlavamo prima, te l’ha ispirata il matador con cui hai parlato, quella della fusione?
MC: No, lì c’è la mia immaginazione, è la mia visione della corrida: uccidendo il toro, il matador si nutre del suo simbolo, della sua immortalità. Perché il matador è un uomo mortale mentre il toro è un simbolo immortale. La fusione è per me la consacrazione dei due. E quando si applaude, si applaude al matador ma anche il toro.
SE: In un certo qual modo, i due corti sono collegati: Matatoro è ambientato ad Arles e dall’anfiteatro di Arles parte Hasta Santiago
MC: Esatto. Ho voluto fare un omaggio al luogo dove ero partito e dove ho fatto il mio film. Per me Arles è come la città nido, come un’arena, e l’ho voluta rappresentare così. Era una colonia romana, poi nel medioevo è stata riempita di case e l’arena è stata usata per fortificare la città. Fino al 1870 credo la città era costruita dentro l’arena, come una piccola fortezza. Poi, dopo la presa d’Algeria, hanno voluto festeggiare sgombrando tutto e riutilizzandola come arena. Io però ho voluto lasciare questa immagine, una più intimistica Arles città-nido.