Cronaca di una morte (cinematografica) annunciata – l’alma latina di Venezia
L’autunno incalza e anche quest’edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica è passata. L’atmosfera all’interno di questa manifestazione per cinefili e addetti ai lavori, quest’anno, era particolarmente rarefatta, un po’ surreale, quasi dal sapore “neo-western” di The Salvation (che, datato maggio 2014, purtroppo non è mai stato proposto al Lido di Venezia). Sale più vuote dell’anno scorso, code meno lunghe, film più scialbi. Dopo quattro anni di partecipazione al festival in qualità di mera cinefila, mi aspettavo un miglioramento ma in questo caso è avvenuta la cosa peggiore che ci si possa aspettare: nessun passo indietro ma neanche piccoli passi in avanti. Un festival-limbo, dall’atmosfera stagnante e vagamente caratterizzata da quella flatness, da quel senso di piattume, più tipico delle lande desolate di Grandi speranze che dell’isola veneziana. Sarà stata complice anche l’aria insolitamente fresca che tirava e che, quindi, ha annullato il sapore di fine estate tipico della mostra? O anche la mutazione di Johnny Depp, che ha fatto rimanere a bocca aperta – ma non per la meraviglia – tutti coloro che sono accorsi a riceverlo in conferenza, al photo call e al red carpet? Può darsi. Fatto sta che dopo aver trascorso dieci giorni ininterrotti a entrare e uscire dalle sale, a guardare film più o meno belli, mi sento di poter dire la mia su quello che ritengo un appuntamento imprescindibile di ogni estate e a cui sono estremamente legata. Lungi dal voler essere intriso di eccessivi tecnicismi (anche volendo, non ne sarei in grado, dato che non sono un’“addetta ai lavori”) questo articolo vuole essere una cronaca cinematografica della 72° edizione del festival del cinema di Venezia. Nella speranza che le mie impressioni possano essere d’aiuto a chi vuole recuperare i film della mostra, alcuni da evitare assolutamente e certi altri da non perdere. Bando alle ciance, quindi, ed ecco quelli che per me sono i film da bocciare, da rimandare e da promuovere:
Bocciati
“Mamma li turchi” e la delusione di Bellocchio
Aprirei questo paragrafo esprimendo tutto il mio cruccio nei confronti della giuria del festival che, presieduta dal regista, produttore e sceneggiatore Alfonso Cuarón, ha deciso di assegnare un premio speciale al film turco Abluka (Follia) di Emin Alper. Alfonsino, mi duole dirtelo ma, secondo me, tu e i tuoi colleghi avete preso un granchio bello grosso: “119 minuti di noia” potrebbe essere un valido titolo alternativo per questo lungometraggio. Generalmente non esco mai dalle sale, mi pongo l’obiettivo di arrivare sempre fino in fondo alla visione di una pellicola, un po’ come faccio con i libri che mi annoiano a morte. È più forte di me. Questa volta, però, Emin è riuscito a farmi scappare a gambe levate dopo un’ora di proiezione. Ero a metà tra l’annoiata a morte e l’infastidita altrettanto a morte. Non c’era nulla che mi colpisse nel film: una storia che scorreva lenta e che coinvolgeva pochissimo lo spettatore, una fotografia senza infamia e senza lode esattamente come la regia, delle prove attoriali assolutamente nella norma. Non ce la potevo fare. Premio assolutamente immeritato, secondo me, soprattutto considerando i film di cui andiamo a parlare ora.
Tuttavia, il male non veniva dalla Turchia. Il peggio doveva ancora venire: Bellocchio. Marco mio, ma che mi combini? Che t’ha preso quest’anno? Hai letto qualche libro o visto qualche film sui vampiri (meglio non indugiare in ulteriori elucubrazioni su quali titoli), hai mangiato pesante e, dopo un sonno agitato, ti è arrivata l’illuminazione per creare Sangue del mio sangue? Devo essere sincera: non ci ho capito niente. Il nulla allo stato puro. E sono uscita dalla sala avvilita, perché il tuo era un film che aspettavo di vedere con ansia, Marco mio. Non solo perché il tuo lavoro mi piace tanto e perché quello che avevo letto a proposito di quest’opera mi aveva fatto sperare in un bel film sospeso fra passato e presente, con una forte presenza di surreale. Il cast rappresentava un forte punto positivo: Roberto Herlitzka, Alba Rorhwacher, Filippo Timi. Mica i primi che passavano in strada, insomma. Eppure, nonostante queste premesse, Sangue del mio sangue è riuscito solo a farmi agitare sulla poltrona per l’impazienza di capire cosa volesse comunicarmi. Anzi, è anche riuscito a farmi sentire una perfetta cretina quando dei miei amici registi, che avevano assistito alla proiezione con me, hanno cercato di farmi capire che non c’era niente da capire ma solo da abbandonarsi alle emozioni. Mi sono sentita veramente scema. E senza un briciolo di cuore. Era lo stesso effetto che mi ha suscitato Malik col suo The tree of life e col seguito, To the wonder. Niente di positivo, quindi, per quanto mi riguarda.
Ma non siamo ancora arrivati ai film che davvero mi hanno fatto innervosire e mi hanno fatto sentire di aver sprecato delle ore preziose. Avevo “grandi speranze” anche per L’attesa, italo-francese, con la mitica Juliette Binoche. Che però, purtroppo, mi ha deluso tanto: ho trovato la storia molto banale oltre che difficile da far stare in piedi. Lo svolgimento del film mi è parso troppo lento e per nulla accattivante. Un vero peccato, data la stima e l’ammirazione che provo per la Binoche. Nella stessa identica situazione mi sono trovata anche dopo la visione del cileno La memoria del agua, di Matías Bize: Elena Anaya (nota ai più per lo straordinario ruolo interpretato nell’inquietante e meraviglioso La pelle che abito di Pedro Almodóvar) interpreta una madre che perde suo figlio e la conseguente separazione dal marito. Nonostante la prova eccezionale della Anaya, il film non ha mordente. La tematica è già fin troppo trattata in qualsiasi tipo di cinematografia, quasi abusata oserei dire. Va da sé, quindi, che è necessario trovare una chiave di volta che aiuti il film ad avere un carattere proprio, inconfondibile. Beh, Bize non ci è riuscito, secondo me.
Arriviamo ora a quelli che sono state le pellicole-nervi per me, quei film, cioè, che mi hanno solo innervosita e/o provocato un effetto soporifero che neanche l’ipnosi. Partiamo da quello “più blando”, L’esercito più piccolo del mondo di Gianfranco Pannone: un documentario sulle guardie svizzere. Partiamo da una tematica non facile, non propriamente “popolare” o leggera. Se poi viene trattata come una mera cronaca di quella che è la vita di una recluta che arriva poi a diventare parte di questo corpo, le cose non migliorano. Affatto.
Spostiamoci in Brasile con il film di Anita Rocha da Silveira, Mate-me por favor, un film che credo aspirasse a essere un thriller che ti lascia col fiato sospeso ma che alla fine si rivela semplicemente un soufflé mal cucinato, sgonfio dopo pochi minuti fuori dal forno. La premessa è interessante, la scena che precede i titoli di testa è molto inquietante e riesce a fare delle promesse che però poi, sfortunatamente, non riesce a mantenere. Anzi, alla fine la pellicola risulta essere un qualsiasi teen drama con degli omicidi sullo sfondo, giusto per dare un po’ di pepe a quello che, altrimenti, sarebbe risultato un Dawson’s Creek per il grande schermo.
Facciamo un viaggio un po’ lungo e arriviamo in Cina con Beixi Moshuo (Behemoth) di Zhao Liang. Partiamo dal presupposto che non sono un’amante del cinema orientale: Cina, Giappone, Corea e compagnia non hanno mai fatto breccia nel mio cuore. Tuttavia, continuo a vivere questa mia resistenza all’Oriente come un limite, ecco perché ho pensato di provare a dare alla Cina un’altra chance con questo film, anche perché si trattava di una pellicola in concorso. Il risultato è stata una fuga d’emergenza dopo soli trenta minuti di film dovuta a una noia imperante: volendo auto-spezzarmi una lancia in mio favore, un documentario sulle miniere di una regione cinese non è proprio di facile visione, questo va detto. Siete avvisati quindi: se volete recuperarlo, sappiate che è a vostro rischio e pericolo.
Con Bagnoli Jungle di Antonio Capuano torniamo in Italia. Sappiate che se vorrete vedere questo film, dovrete prepararvi al nonsense totale, che però nulla ha a che vedere con le situazioni assolutamente assurde e sopra le righe dei Monty Python, per esempio. Questo film è semplicemente senza alcun senso. Dovrebbe essere una specie di docufilm su Bagnoli e sulla sua vita quotidiana ma quello che ci ho trovato io è stato soltanto il dramma di un regista che non sa che pesci prendere per attirare l’attenzione dello spettatore. E ricorre quindi ad assurdità che non fanno né ridere né piangere.
Arriviamo, infine, al film che più di tutti mi fa dannare. Soprattutto perché si tratta della pellicola che si è aggiudicata il leone d’oro: Desde allá (From afar) del venezuelano Lorenzo Vigas. Tra le tematiche del film, spunta l’amore omosessuale tra un ragazzo e un uomo di una certa età, che mi ha fatto quasi richiamare alla memoria Gerontophilia di Bruce LaBruce, presentato al festival qualche edizione fa. Se quest’ultimo, però, aveva tanti spunti ironici e comici, l’opera premiata come miglior film di questa edizione della mostra risulta noiosa, scialba, priva di una solida sceneggiatura e caratterizzata da un ritmo eccessivamente, inutilmente lento. Alfonsino mio, hai preso una bella cantonata con questo film, te lo dico col cuore.
Rimandati
Film “photoshoppati” e buchi nell’acqua
Un film che mi ha lasciata con una sensazione di insoddisfazione è stato A bigger splash, pellicola italo-americana di Luca Guadagnino, con Tilda Swinton e Matthias Schoenaerts, fra gli altri. La storia è anche interessante, sviluppata bene, ma mi ha lasciato lo stesso senso che può lasciare una pietanza discreta ma che, se arricchita in qualche modo, poteva venir fuori una bomba di gusto. Divertente l’interpretazione di Corrado Guzzanti nel ruolo del maresciallo dei carabinieri dell’isola siciliana dove è ambientato il film.
Con Man Down di Dito Montiel, ci spostiamo in America: Gary Oldman e Shia LaBeouf in una buona interpretazione all’interno di una pellicola che risulta un po’ un’“americanata”, com’era già successo con Good Kill, l’anno scorso.
Tornando in territorio latino, non convince fino in fondo il messicano Arturo Ripstein con La calle de la amargura: la presenza del bianco e nero rievoca le atmosfere del neorealismo per una storia che vive dei personaggi di strada tanto cari a questa storica corrente culturale. L’amarezza (amargura, per l’appunto) si assapora abbastanza bene, anche se manca quel quid in più che lo rende un film interessante.
L’ultimo “rimandato” è Per amor vostro di Giuseppe M. Gaudino, con Adriano Giannini e Valeria Golino. Interpretazione di quest’ultima a parte (che le è valsa anche la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile), d’indiscutibile bravura, il film risulta un’accozzaglia di stratagemmi per rendere un’idea di folclore e di vita di strada meridionale che fallisce miseramente. Le soluzioni visive e sonore mi sono sembrate più simili ai trucchetti di un processo di post-produzione venuto male e mi hanno soltanto infastidita. Questo vi consiglierei di vederlo se non altro per giudicare da voi queste scelte, per quanto mi riguarda molto dubbie.
Promossi
Cartoni animati V.M. 18, polacchi alla riscossa e pecore italiane
Estremamente interessante è stato il film The Danish Girl, che ha visto un bravissimo Eddie Redmayne vestire i panni di uno dei primi transgender della storia. Tratto dal libro La Danese di David Ebershoff, questa storia narra il processo di trasformazione dello stimato pittore Einer Wegener, che realizza, quasi per gioco e per caso, dopo un processo molto tormentato, la propria identità (anche sessuale). La coppia Redmayne-Vikander riesce perfettamente a trasmettere un dramma a due, dato che non si tratta solo della messa in discussione dell’identità singola di Einer ma anche del matrimonio e della vita di coppia che quest’ultimo condivide con sua moglie. Basato sulla storia vera di questa persona che decise di sottoporsi alla delicatissima e rischiosa operazione di plastica genitale, alla pellicola non sono state risparmiate critiche: le associazioni di transgender si sono già sollevate per protestare contro il fatto che sia stato un uomo e non un vero transgender a interpretare la parte di Einer. Personalmente, la ritengo una sciocchezza: il film è la storia di un processo, di una trasformazione in fieri, quindi che senso avrebbe avuto far interpretare un ruolo in continua evoluzione a chi è già certo della propria identità?
Premio per la miglior regia assegnato a Brady Corbet, per il suo Childhood of a leader, storia dell’infanzia e della crescita di un futuro leader di una nazione non identificata. Arricchito dalle magistrali musiche di Scott Walker, questo film vi lascerà a bocca aperta, anche per l’ottima prova attoriale del giovanissimo attore protagonista. Sappiate solo che si tratta di un film “non facile”, un po’ pesante, ma se terrete duro ne varrà sicuramente la pena.
Delizioso il documentario Janis, dedicato alla vita della cantante Janis Joplin, per la regia dell’americana Amy Berg. La vita della cantante è ripercorsa in modo originale e fresco, alternando trovate “romanzesche” alle classiche interviste a persone che l’avevano incontrata e conosciuta. Se siete amanti della sua musica e delle atmosfere psichedeliche anni Sessanta, vi consiglio di non perdervelo.
Molto interessante è stato anche Interruption, opera prima del greco Yorgos Zois. La cinematografia greca aveva già dato buone prospettive due edizioni fa con Miss Violence di Alexandros Savranas, che aveva vinto il leone d’argento. Zois, al suo esordio, non è da meno ed è riuscito a regalare un’interessantissima reinterpretazione dell’Orestea di Eschilo. Lo consiglio particolarmente a chi è amante del teatro perché non solo è un film che reinterpreta un’opera teatrale (e già sappiamo quanto ardua sia quest’impresa) ma anche perché quest’opera parla di teatro. Qui assistiamo al cinema che parla di teatro: una delle cose più difficili e complicate da raccontare all’interno di una pellicola, secondo me.
Bello e sorprendente si è rivelato essere Remember di Atom Egoyan: un magistrale Christopher Plummer interpreta il ruolo di un uomo che deve ricordare quello che gli è capitato all’interno del campo di sterminio di Auschwitz per perpetrare la propria vendetta. Non lasciatevi ingannare però: messa così, potrebbe sembrarvi una delle tante storie di ebrei che vogliono ripercorrere un doloroso passato per cercare di dargli un senso nel presente e trovare pace con la legge dell’“occhio per occhio”. Non potrebbe esserci un’idea più sbagliata di questa associata a Remember. Questo film vi sorprenderà inquadratura dopo inquadratura, scena dopo scena. Il finale, poi, è una vera deliziosa ciliegina su questa sorprendente torta cinematografica.
Agli amanti della fantascienza consiglio di vedere Equals di Drake Doremus, con Kristen Stewart e Nicholas Hoult. Un Romeo e Giulietta ambientato in un futuro utopistico che mi ha vagamente richiamato alla memoria le atmosfere di Gattaca. Nessun punto particolarmente originale ma è un film assolutamente godibile, con un’eccellente colonna sonora che conferisce al film un buon sapore, con una regia e una fotografia molto puliti.
Due film americani con degli attori degni di nota sono sicuramente Black Mass di Scott Cooper e Go With Me di Daniel Alfredson. Nel primo troviamo, fra gli altri, Johnny Depp e Benedict Cumberbatch che danno vita a una storia coinvolgente, con uno stile ben definito. Stessa cosa vale per il secondo film, con Anthony Hopkins e Julia Stiles (che avevo già visto in A time for dancing e Mona Lisa Smile). Entrambe le pellicole sono da vedere, portano entrambe il classico marchio di fabbrica americano e sono immancabili alla mostra del cinema di Venezia.
Voglio dedicare qualche riga anche a due film italiani che mi hanno sorpreso molto: Non essere cattivo di Claudio Caligari e Pecore in erba di Alberto Caviglia. Protagonista del primo è Luca Marinelli, che riveste i panni di un reietto in una Ostia particolarmente degradata e abbandonata a se stessa, caratteristiche che mi hanno fatto ricordare subito le vicende vissute da Elio Germano ne La nostra vita, di Daniele Lucchetti, 2010. Il film si lascia seguire molto bene e, soprattutto, mi è piaciuta moltissimo l’interpretazione di Luca Marinelli che riesce a dar vita a un personaggio completamente diverso già rispetto al protagonista timido, serio e studioso di Tutti i santi giorni, bellissimo film del 2012 diretto da Paolo Virzì. Il secondo film italiano che si è dimostrato una vera e propria rivelazione e che mi è dispiaciuto moltissimo sia passato del tutto inosservato è Pecore in erba. Questa pellicola vi farà ridere fino alle lacrime, lanciando una feroce critica indiretta con ironia e stile a determinati movimenti sociali che sono sorti negli ultimi anni. Mi ci è voluto qualche minuto per capire che non si trattava di un documentario ma di un mockumentary alla Zelig di Woody Allen. Inoltre, chi segue Il Terzo Segreto di Satira sarà contento di trovare in questo film il mitico “dalemiano”. Straordinario e graffiante, come solo pochi film italiani sanno essere.
Arriviamo a due film che avrei tanto voluto vedere al primo e al secondo posto di questa edizione della mostra del cinema di Venezia: El clan dell’argentino Pablo Trapero e 11 minut (11 minutes) del polacco Jerzy Skolimowski. Partiamo da El clan: personalmente lo ritengo un film perfetto. Non sono riuscita a trovarci una sola falla. Colonna sonora coinvolgente e in perfetta armonia/disarmonia studiata con il film, un montaggio che rende ogni scena un uncino a cui lo spettatore resta agganciato senza speranza, recitazione di alto livello, ottima sceneggiatura, una regia che mi ha lasciato senza parole. Se poi siete amanti della storia e, in particolare, delle vicende legate alle dittature dell’America Latina, questo è proprio il film che fa per voi.
Se il film di Trapero si è dovuto accontentare di un ingiusto secondo posto, 11 minut è stato ingiustamente ignorato: in appena un’ora e venti, Skalimowski è riuscito a creare un universo perfetto di coincidenze fatali che si dispiegano nell’arco di soli undici minuti. Una fotografia pulita, accompagnata da un’ottima regia, il tutto coronato da raccordi di una precisione estrema, al limite col maniacale. La tematica la ritroviamo già in molti film ma lo sviluppo è eccezionale: quello che mi è subito venuto da pensare, infatti, è che si tratta di una versione 2.0 molto, molto, molto migliorata di 11.14: destino fatale, del cui cast faceva parte anche Patrick Swayze.
Vorrei concludere questa mia cronaca menzionando un lungometraggio di animazione altrettanto ingiustamente ignorato: Anomalisa di Charlie Kaufman, già sceneggiatore dello stupendo Eternal Sunshine of the Spotless Mind (e no, non vi darò il titolo in italiano, non ce la posso proprio fare; per chi non lo conoscesse, può googlare il titolo in inglese e l’arcano sarà presto svelato). Un vero e proprio film d’animazione per adulti, non accessibile ai bambini, non tanto per la scena di sesso esplicita tra i due protagonisti quanto per le tematiche trattate: la fragilità dei sentimenti umani, la crisi d’identità di un individuo, il pericolo e l’inspiegabilità dell’omologazione, l’incapacità di capire come determinati rapporti si accartoccino su se stessi.
Ilaria Lopez