I GENERI DEL CINEMA COREANO – Parte III: K-Action
A ben guardare, so’ tutti piezz’e core(a). Fratello burbero del k-horror, anche l’action deriva dal melodramma. Rispetto al primo, è ancora più reazionario e legato alla cultura confuciana: se le donne fantasma tornano dall’oltretomba per riparare torti subiti perlopiù nell’ambito domestico, l’action coreana è un melò al maschile nel quale l’uso della forza e della violenza è originato dal desiderio nostalgico di tornare al passato e ritrovare la figura paterna forte al comando, ad una società composta di servi e padroni, nella quale la donna non ha praticamente nessun ruolo rilevante e l’obbedienza alle regole e al potere assume carattere religioso.
Niente a che vedere, insomma, con il noir e il gangster-movie americano; si tratta più che altro della rielaborazione dei film giapponesi che trattano di yakuza, fatta con i codici del western occidentale. All’inizio, fine degli anni 50, narravano le gesta dei combattenti per l’indipendenza sotto l’occupazione giapponese, o dei rifugiati dopo la guerra di Corea, o gangster di strada ritratti come prodotto della modernizzazione. Gli eroi sono spesso teppisti, ma con un cuore grande così.
Negli anni 60 i film d’azione erano praticamente tutti uguali, prodotti quasi come una serie televisiva, con gli stessi attori che recitavano negli stessi ruoli, e con alcune costanti: amicizia vissuta come una fratellanza sacra tra uomini, tradimento, sacrificio, lealtà, spesso a discapito anche dell’amore. E’ sempre il boss-padre a dover prendere le decisioni importanti, e con la minacciosa avanzata della modernizzazione tocca a lui proteggere gli affiliati-figli dalla frenetica società che li circonda, al cospetto della quale il maschio è impotente e incapace di fronteggiare qualsiasi problema, se non ricorrendo al clan. Per questo nei film coreani tutti sono sempre fedeli, fino all’estremo sacrificio, alle strutture di gruppo e alle regole. Il tradimento è il peccato più grave.
Questo è un concetto che va ad arricchire la lunghissima serie di contraddizioni della società coreana (e del suo cinema: le contraddizioni sono l’ingrediente segreto, rendono i film che amiamo unici ed irripetibili): come puoi guidare una gang, se non con il tradimento della legge e delle regole della società? Ironicamente, l’action coreano è quindi necessariamente basato sul tradimento. I gangster commettono crimini efferati a più non posso, con lo scopo di evitare di commettere il più grave di tutti, chè tradire il proprio capo è l’atto blasfemo per eccellenza e prescinde ogni legge.
“Il pugno viene prima della legge”.
Alla base del genere c’è inevitabilmente la sfiducia nella giustizia dello stato, uno stato che con la guerra ha privato mezzo popolo delle loro case, a causa della divisione della nazione, altre ancora a causa della distruzione della società agricola nel nome del progresso, e poi una volta in città li ha nuovamente sfrattati e riversati per strada; invece di offrire opportunità, il potere costituito ha sfruttato la manodopera a basso costo solo per accumulare ricchezze e capitali. E’ meglio, quindi, darsele di santa ragione per risolvere un problema, vince il più forte et voilà. La violenza negli action scaturisce quindi dai conflitti sociali e dalle contraddizioni intrinsecamente violente. Questo spiega il grande successo del primo gangster-movie, The Gallant Man (1969), nel quale la bandiera del riscatto patriottico è portata da un mucchio selvaggio di gangster che diventano combattenti per la libertà contro l’occupazione giapponese.
Erano anni vacillanti per il mito del maschio alfa coreano, con la crescita della forza occupazionale femminile, e sempre più donne a sostituire gli uomini, sia a capo delle famiglie che nei posti di lavoro. La nostalgia diventava quindi sempre più reazionaria, anche se gli anni passavano i ruoli delle donne continuavano ad essere molto fedeli alle leggi ideologiche del confucianesimo. Nefasta fu, inoltre, l’influenza del cinema di arti marziali proveniente da Hong Kong, che in Corea fu imitato al punto da far scomparire l’identità nazionale dai film d’azione; e infatti il genere scomparse quasi del tutto negli anni 80. Per poi tornare, identico a quello degli anni 60, a partire da The General’s son del 1990, diretto da Im Kwon-taek. A tutt’oggi, nonostante gli sforzi e le evoluzioni stilistiche e drammaturgiche, l’altissimo livello di twist emozionanti e slanci poetici commoventi, nell’action coreana la componente reazionaria è ancora una costante. Tutto questo rende ancora più imprescindibile la visione di un film rivoluzionario come Man On High Heels, uno dei tanti fiori all’occhiello della imminente rassegna I Dispersi Verso Oriente. Ringraziamo ancora una volta il lavoro fondamentale di Chung Sung-ill, “Four Variations on Korean Genre Film: Tears, Screams, Violence and Laughter”.
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