Geografie e gradi dell’ucronia-Miyazaki di Luigi Abiusi
Testo tratto dal saggio Geografie e gradi dell’ucronia-Miyazaki di Luigi Abiusi, compreso in un volume sulla filosofia di Miyazaki, a cura di Matteo Boscarol, in via di pubblicazione per l’editrice Mimesis.
La natura postmoderna del cinema di Miyazaki, stratificazione di un immaginario come galleggiante, apparentemente senza tempo, si rivela indicativamente proprio in un dato storico, nel radicamento capillare della televisione negli anni Settanta e nel proliferare simultaneo di mondi e personaggi che, da una serie all’altra (che è il contesto del suo apprendistato) si ripetevano, tra fauve e favola, sotto forma di varianti, si contraddicevano, sublimavano nella totale falsità del testo d’animazione, variopinto, stereotipato iperuranio di sagome volanti. Ed era certo nel sovraccarico e nella simultaneità dell’offerta tardo capitalista1 di visioni, che certo postmodernismo (in qualche modo preservato anche da Jameson) si autogenerava e autoalimentava sfuggendo alla semplice, ludica ostensione dei significanti, e sviluppandosi anche nelle profondità psichiche (a volte anche mistiche) dell’emotività di quelle sagome vibranti: nudi, scoperti dispositivi di percezione che anziché vanificare la prospettiva umanistica nell’autoreferenzialità linguistica, la intensificavano dentro il particolare ritorno all’uomo (simulato nei tratti dei disegni, appunto sagomato) e alla storia, ricontestualizzata attraverso le dinamiche della finzione.
Il vibrare dei personaggi, in varie sfumature e polarità, si svolgeva nel senso di un’estroflessione spinta, esasperata della sensibilità dei soggetti simulati, come ad esempio in Mirai shônen Konan (Conan ragazzo del futuro, 1978), Akage no An (Anna dai capelli rossi, 1979) entrambi realizzati con vari apporti di Miyazaki (tra disegni e regia), fino a serie come Berusaiyu no bara (Lady Oscar, 1979) e Lady Georgie (Georgie, 1983), in cui questa sentimentalità, scadendo o elevandosi al genere, si caricava di un particolare, ingenuo erotismo e allo stesso tempo di una morbosità tipici della visione fanciullesca. Ė il concetto di amore che, anche nelle serie più politicizzate come Uchû kaizoku kyaputen Hârokku (Capitan Harlock, 1978) e il capolavoro Ginga tetsudô Three-Nine (Galaxy Express 999, 1978-81), si sedimentava nell’epidermide di spettri di carta2 e nel particolare movimento in superficie, animazione appunto, di queste icone di ventura, arrivando a stratificarsi, nei migliori dei casi, non solo nella profondità della storia (in un senso tutto dialettico e non filologico), ma anche in quella più astratta e aporetica del cosmo, verso referenti esterni (al contingente linguistico), coincidenti con il senso dell’uomo come conduttore di impulsi, il più delle volte mancanti nei prodotti postmoderni. In questa chiave alcuni dei cartoni animati realizzati tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta (soprattutto nella forma della serialità) costituiscono una deroga all’ingiunzione jamesoniana sul postmodernismo, nella misura di un’animazione, di un’impulsività eccedente, para-romantica, che intesse storie d’amore inventate nella storia, racconti intrisi del senso della storia, quelli che Bloomenberg chiama concetti-in-storie, avvalorando l’efficacia delle narrazioni contro la metanarrazione3 costituita, in questo caso, dalla filosofia della storia. Del resto anche Deleuze l’aveva contestata e permutata con la filosofia delle storie, una pragmatica della verità temporale ricercata non nell’anamnesi, quindi nella complessione a priori delle cose e nella sua comprensione in sintesi, ma nei vuoti e negli strappi della realtà, cioè ovunque ci sia narrazione4: l’apertura temporale, l’incidentalità (fortemente significativa) dell’immanenza sono il terreno del tuberoso e tumultuoso sostanziarsi di sezioni di senso (narrazioni appunto) a elevato, estremo grado di intensità attraverso cui passa non una verità già da sempre raccontata, ma la verità da raccontare sempre di nuovo5.
È questa verità che Hayao Miyazaki ripresenta ogni volta, racconta sempre di nuovo, incarnandola nei suoi spettri di cartone frementi e permutanti per via dei propri simili caratteri che sono la loro carne – perciò Haku, mago proteiforme, alato, trapassa in Howl, Chihiro in Sofi, Clarissa in Sheeta, la madre di Satsuki, tubercolotica, in Nahoko, i pirati dell’aria capeggiati da Dola in quella della “Mamma aiuto” e così via – capaci di un’emotività più straripante, proprio nietzschianamente, di qualsiasi corpo di carne, come Fio che nel rifugio di Porco rosso (Kurenai no buta, 1992), in preda a innamoramento, comincia a tremare e dice mentre le lacrimano gli occhi: «è che il cuore mi batte così forte che mi sento soffocare», prima di spogliarsi e tuffarsi nell’acqua della cala, provocando il rossore sul volto di Porco. Il che si associa ai continui riferimenti precorsi alle natiche di Fio (più o meno grandi rispetto all’abitacolo dell’aereo) e alla sua precoce bellezza, che rappresentano un senso dell’eros innocente e pure infantilmente morboso: è l’eccitazione del coreografico, dell’esserci pulsionale dentro sagome a disposizione nello spazio (che si universalizza e astrae nello spazio stellato percorso dal Galaxy Express o dall’Arcadia); della linea tracciata a racchiudere, riempire il seno di Fujiko, quello di Toki (sempre scollata in modalità di erotismo rurale) in Mononoke-hime (La principessa Mononoke, 1997), o d’altra parte, la schiena nuda fino al coccige di Howl mentre Sofi l’aiuta a salire le scale (Hauru no ugoku shiro, Il castello errante di Howl, 2004): è il tratto di formazione, di creazione estatica (quello che per Nietzsche è nichilismo attivo o, appunto, estatico), linea di straripamento o svuotamento feticistico di densità, sostanza che magari resta (sostanza di risulta) sul pavimento, a dare significato allo spazio in quanto reliquia6. Un meccanismo di s-formazione, sintetizzato, ad esempio, dall’animazione dei tuberi sferici, elastici come sacche, scroti, che gemmano sugli alberi all’inizio di Kaze no tani no Naushika (Nausicaa della valle del vento, 1984); sono pieni, gravidi di materia, poi sbottano sgonfiandosi, emettendo spore che vagano nell’aria: un episteme della secrezione di quelle forme erotiche riempite dal disegno, a cui è complementare quello della deiezione feticistica, come in Sen to Chihiro no Kamikakushi (La città incantata, 2001) in cui a un tratto compare nelle terme il dio del fiume scambiato per lo spirito del cattivo odore, che viene sturato da Sen, così da scaricare fuori dal suo corpo l’enorme congestione di melma e ciarpame; o nel caso della desquamazione, dello smottamento del castello di Howl alla fine del film, che resta come cumulo di rovine dopo il suo collasso.
1Si tratta della riduzione delle opere postmoderne a prodotti del capitale, per lo più “superficiali”, “anaffettive”, assunta da Fredric Jameson in Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano, Garzanti, 1989. Questo e altri testi su postmoderno e postmodernismo sono ampiamente risaputi: li cito come premessa e addentellato al discorso sulla particolare gnoseologia di Miyazaki.
2È l’ontologia del cinema in quanto spettralità e incarnazione/disincarnazione dei personaggi (dentro il corpo attoriale) secondo Derrida (J. Derrida, Spettri di Marx, Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Milano, Cortina, 1994).
3J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1991.
4J. Deleuze, Marcel Proust e i segni, Torino, Einaudi, 2001.
5S. Givone, Il bibliotecario di Leibniz, Torino, Einaudi, 2005.
6Peraltro sono molti i punti del cinema di Miyazaki in cui si svolge una compiaciuta ostensione delle antiche architetture occidentali, e particolarmente degli ammattonati irregolari, i diroccamenti, le rovine: elementi la cui profonda significazione ed estetica sono date dall’azione del tempo sulla materia: allora alle costruzioni murarie si aggiunge la varia oggettistica antiquaria, tra cianfrusaglie, gioielli, pentacoli. Per quanto riguarda questa vasta estetica cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi, 1999 e F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 2015.